Polpette del Martedì, seconda parte. Vincenzo Mancino di DOL per la rassegna sul Calendario della Cucina Romanesca ci ha regalato la sua ricetta delle Polpette alla Romana. Ma quali sono le materie prime tradizionalmente usate per preparare le polpette a Roma? Vi raccontiamo qui alcune accattivanti curiosità, che si intrecciano con il territorio e con la storia della città.
Le Polpette rappresentano una specialità ben nota e diffusa in tutto lo Stivale. Ogni regione ha la sua variante, ma il concetto di fondo è sempre lo stesso: il riuso di preparazioni e ingredienti. Uova, pane, carne e formaggio, con le dovute eccezioni, ne rappresentano gli elementi di base. Ma ancor di più, soprattutto in tempi passati, spezie e odori a coprire eventuali segni di decadimento degli alimenti stessi.
Per quanto riguarda la tecnica poi, nulla di più semplice; basta mescolare, impastare con buon senso, friggere e il gioco è fatto. D’altronde anche Pellegrino Artusi nel suo “La Scienza in cucina e l’Arte di Mangiar Bene” (1891) ne parlava così:
“Non crediate che io abbia la pretensione d’insegnarvi a far le polpette. Questo è un piatto che tutti lo sanno fare cominciando dal ciuco, il quale forse fu il primo a darne modello al genere umano”.
Una grande differenza la fa certo il “tocco personale”, quella “variazione” o quell’aggiunta capace di rendere delle semplici polpette un unicum inestimabile. Come la scorza di limone e il “soffrittino” che Vincenzo Mancino ha inserito nella ricetta delle Polpette alla Romana in occasione della nostra rassegna sulla Cucina Romanesca.
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Polpette: Pane, Carne e Formaggio nella tradizione romana
Le Polpette alla Romana prevedono dunque uova, pane, carne e formaggio. Gli ultimi tre, ingredienti decisamente più caratterizzanti, e in grado di esprimersi in maniera diversa in base alla provenienza.
A tal proposito, la tradizione capitolina annovera diversi tipi di pane, per gran parte ancora oggi largamente consumati.
Per quanto riguarda l’origine della carne, tra le razze bovine più radicate nel territorio, si contano la Chianina, la Maremmana e la Bruna Alpina.
Tra i formaggi, invece, è sempre stato quello di derivazione ovina a farla da padrone.
Ma entriamo più nel merito, ingrediente per ingrediente.
Il Pane, dalla Ciriola ai Pani Caserecci
A Roma l’antenato del pane, inteso come alimento di base era la cosidetta puls, una sorta di pappa ottenuta dall’impasto di farina di cereali (in primis il farro) con acqua calda. Con molta probabilità, furono i prigionieri Macedoni, intorno al 170 A.C., a portare nell’Urbe l’arte della panificazione, dopo averla appresa dai Greci.
Sempre al II secolo A.C. risale la diffusione e l’affermazione del frumento come cibo primario, di cui erano ricchi i nuovi territori annessi quali Sicilia, Sardegna, Egitto e Africa proconsolare.
Da allora, i fornai divennero figure di rilievo della società, tanto da godere di privilegi e immunità da parte delle autorità pubbliche. Ed è proprio a un fornaio, Marco Virgilio Eurisace (e alla sua consorte), che appartiene il sepolcro a Porta Maggiore datato 30 A.C. i cui bassorilevi raccontano nel dettaglio il processo della panificazione, dalla macinatura alla cottura in forno.
Ma quali sono i pani più rappresentativi della tradizione a Roma? Anni fa, prima di essere soppiantata dalla Rosetta, sulle tavole romane imperava la Ciriola. Una pagnotta di forma ovoidale e ricca di mollica, ideale per essere farcita.
Per quel che riguarda l’origine del nome, c’è chi la riconduce alle ciriole, le anguille che un tempo si pescavano nel Tevere di cui ricorderebbe la forma. Altri fanno riferimento al termine latino antico”cereola” (candela) o al latino medievale “ciriolus” (cero), dal colore del pane cotto simile a quello di un cero. In epoca fascista, la razione giornaliera pro capite prevista dalla carta annonaria era proprio la ciriola. Ai giorni nostri, questo pane tipico sta pian piano riguadagnando un posto di riguardo nelle panetterie di tutta la città.
Ancora molto diffusi sono i cosiddetti pani caserecci. Tra questi il Pane di Genzano (RM), il primo in Europa a ottenere l’IGP, prodotto con farina di grano tenero, lievito naturale, acqua e sale. Secondo gli abitanti, oltre alla qualità delle materie prime, il segreto della sua bontà sta proprio nell’aria della cittadina. Le sue caratteristiche principali sono la mollica spugnosa con ampia alveolatura e la crosta scura per via dell’abbrustolimento del cruschello (o tritello) di grano con cui è spolverato in superficie.
Da citare l’altrettanto noto Pane di Lariano (RM), ora a marchio MCG (Marchio Collettivo Geografico), prodotto con miscela di semola di grano tenero semintegrale, lievito naturale, e sottoposto doppia lievitazione e cotto in forno a legna, perlopiù legno di castagno.
Altri pani storici regionali sono il Pane di Vicovaro (RM), cotto nei forni a legna alimentati a legno di ginestra e di recente salvato dall’oblio, il Pane di Canale Monterano (RM) e il Filaretto di Filacciano (RM). Ognuno con una bellissima storia da raccontare.
La Carne, il fermento del Campo Vaccino
La carne bovina di tradizione “macellara” è comparsa in maniera più prepotente sulle mense di Roma soltanto a partire dal Rinascimento. Il suo crescente uso per scopi alimentari è testimoniato dalla fervente e brulicante attività del Campo Vaccino di cui la prima attestazione si ha in una bolla pontificia di papa Pio V del 1569. Si trattava di un’ampia area localizzata nel Foro Romano, adibita al mercato boario, ma anche al ritrovo e al passeggio. Contornata da chiese, edifici e rovine (ben presto smantellate per il riuso edilizio) offriva uno scenario di rara suggestione che ha ispirato molti artisti tra cui William Turner, autore dell’omonimo e celebre dipinto del 1839 nell’immagine di apertura.
Al centro del campo era posizionata una fontana (1593), a uso abbeveratoio, progettata da Giacomo della Porta e composta da una vasca in granito, oggi posizionata sotto l’obelisco del Quirinale, e da un mascherone che si può ammirare all’ingresso del Giardino degli Aranci.
Nel Campo Vaccino si svolgeva anche la tradizionale “sassaiola”, battaglia con lancio dei sassi tra i bulli dei vari i rioni, in particolare quelli di Monti e Testaccio.
Il formaggio: rigorosamente Pecorino
Il pecorino è uno dei formaggi più emblematici del territorio laziale. Gli Antichi Romani ne erano ghiotti, tanto che rientrava nella razione giornaliera dei legionari insieme al pane e alla zuppa di farro. Così come lo scrittore di agricoltura Columella (4-70 D.C.) nel suo De re rustica, ci racconta le già rodate tecniche di lavorazione del latte ovino.
Il pecorino era anche uno degli alimenti più consumati dai milioni di pellegrini che, diretti nella Città Eterna, transitavano per le campagne romane popolate di greggi e locande, senza scordare di conservare qualche pezzo di buon formaggio nella bisaccia.
Per quanto concerne le pecore, le razze autoctone come la Comisana e la Sopravissana hanno ceduto pian piano il passo ad altre con una resa in latte maggiore come la Sarda o la Siciliana.
Oggi tutto il mondo conosce il Pecorino Romano a marchio DOP, prevalentemente prodotto in Sardegna per ragioni storico-economiche. Tra queste ci sarebbe il divieto di salagione del formaggio all’interno dei confini della città imposto nel 1884, che spinse gli imprenditori a migrare la produzione in un’altra terra dalla forte vocazione agro-pasturale.
Il Consorzio per la Tutela del Formaggio Pecorino Romano è stato istituito nel 1979, mentre nel 1996 la DOP. Oggi il Pecorino Romano DOP contempla come zona di produzione il Lazio, la Sardegna e la Provincia di Grosseto.
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